Come i virus e gli sbadigli, le emozioni sono contagiose.
Una ricerca del 2014, condotta da James H. Fowler dell’Università della California, ha evidenziato che quando diventiamo improvvisamente felici a causa di un evento (magari perché ci siamo innamorati), un amico che vive nel raggio di un paio di chilometri ha il 25% di probabilità di diventare felice a sua volta.
Questo vale anche al contrario.
Un altro studio, questa volta a cura di Gerald J. Haeffel dell’Università del Wisconsin-Madison, ha scoperto che gli studenti che dividono una stanza con colleghi che manifestano sintomi depressivi rischiano di essere “contagiati” a loro volta.
Conferme vengono anche dall’Europa.
I neuroscienziati tedeschi dell’Università di Dresda, hanno dimostrato che è sufficiente vedere una persona stressata (perfino se sconosciuta!), per far salire il nostro livello di cortisolo.
Il cortisolo viene spesso definito “ormone dello stress” perché si riversa nel nostro organismo, appunto, in condizioni di stress psico-fisico elevato, come dopo aver fatto degli esercizi fisici o dopo aver subito un’operazione chirurgica.
E’ un ormone che agisce come neurotrasmettitore nel cervello (cioé è un messaggero chimico che trasmette informazioni da una cellula ad un’altra).
In realtà questo elemento non è di per sé cattivo, infatti viene prodotto dal corpo in situazioni di tensione, per aiutarci ad affrontarle.
Il problema è che, quando raggiunge livelli troppo elevati, causa spiacevoli effetti, come la mancanza di senso dell’umorismo, un’irritazione costante e una stanchezza cronica.
La produzione di questo ormone è controllata dall’ipotalamo, una struttura posizionata al centro del nostro cervello.

L’Ipotalamo e la sua posizione nel cervello
#1. La contagiosità dell’ansia ha un suo senso, ma…
Torniamo alla “contagiosità”, che riguarda soprattutto l’ansia.
La cosa non dovrebbe sorprenderci.
A livello evolutivo, l’ansia si è rivelata un’ottima alleata per gli uomini primitivi, quando erano immersi nei pericoli della giungla.
La storia, però, è ormai cambiata. I pericoli di cui avere timore non sono più i leoni affamati, ma cose più “innocue” come le cartelle di Equitalia.
Se oggi passeggiamo per strada e nel nostro raggio visivo appare qualcuno che ha l’aria allarmata, come se stesse succedendo un attentato terroristico, probabilmente (penseremo) è perché sta succedendo sul serio.
Per quale ragione una persona dovrebbe correre terrorizzata se non per un buon motivo?
E’ più probabile che la storia del terrorista sia vera piuttosto che uno scherzo di cattivo gusto con il solo scopo di farci spaventare.
In qual caso essere allarmati a nostra volta potrebbe salvarci la vita.
Altre volte questo meccanismo non va così bene.
Un esempio è il recente incidente di Torino, dove migliaia di persone sono letteralmente impazzite e hanno iniziato a scappare per un presunto terrorista, travolgendo chi gli era intorno.
Sono bastate poche persone che hanno male interpretato la scena, per contagiare tutti gli altri.
Il risultato è stato di 1.500 feriti e di un morto.
#2. Sfatiamo il mito: l’ansia non ci rende più produttivi
Un altro problema è che alcune persone (anzi, diciamolo chiaramente: quasi tutte) hanno questa malsana idea che l’ansia sia costruttiva.
Quando si è al lavoro o si è concentrati su un progetto, capita spesso di trovare quello che ha la brillante idea di mettere ansia e preoccupazione al prossimo, per aumentare la produttività.
In pratica sono quelli più preoccupati tra tutti, e quindi vogliamo condividerla con il gruppo perché pensano che così facendo gli altri “lavoreranno” meglio.
Nulla di più sbagliato.
Innanzitutto le preoccupazioni cambiano da persona a persona, non si possono semplicemente “trasmettere”.
Se io sono l’Amministratore Delegato di un’azienda, avrò delle preoccupazioni qualora non fossero rispettate le scadenze (come, ad esempio, fare brutta figura con gli investitori).
Se io sono l’operaio, avrò preoccupazioni totalmente diverse rispetto al mio capo riguardo lo stesso caso (come ad esempio essere licenziato a causa del non aver rispettato i tempi). Degli investitori non me ne può fregar di meno.
Stessa situazione, stesso obiettivo, ma preoccupazioni diverse.
Mettere semplicemente ansia non serve, non è costruttiva, ma è solo una distrazione che abbassa la qualità del lavoro.
#3. Mettere ansia non serve né a te né a chi ti circonda
Immagina di tagliarti un dito mentre stai cucinando.
Imprechi, applichi una fasciatura, ti metti in macchina e corri al pronto soccorso.
Arrivato sul posto e grondante di sangue, ti accoglie il medico di turno che, dopo aver tolto la fasciatura, si mette a urlare.
Preferiresti questo o che ti dicesse “Calma, adesso ci penso io”?.
Ovviamente la seconda.
“Condividere il dolore degli altri ci sembra il modo migliore per mostrarci compassionevoli, ma spesso è controproducente, perché può farci prendere decisioni sbagliate”, conferma Paul Bloom, professore di Psicologia Cognitiva all’Università di Yale.
Il miglior atteggiamento da assumere in casi di emergenza è quello del “dottore tranquillizzante”, il quale aiuta chi gli sta intorno innanzitutto a controllare i loro livelli d’ansia, e poi, eventualmente, a risolvergli il problema.
Questo vale in famiglia, in relazione e sul lavoro.
Hai un problema? Cerchi aiuto?
Non generare ansia anche negli altri: rischieresti di non farti aiutare come vorresti.
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Articoli consigliati: “Ecco Perché Superare Un Trauma Ti Rende Migliore”
Lettura consigliata: “Vincere l’ansia e la timidezza” di Barbara G. Markway.
Puoi leggere un estratto del libro a questo indirizzo.


Fondatore di Psicologia Applicata.
Mi interesso di Psicologia, persuasione, tecnologia e di cucina giapponese che ha rovinato le mie finanze.
Il mio obiettivo è diffondere conoscenza, arricchire le persone ed estrarre il meglio da loro.
Il mio mantra è:
“La conoscenza è potere.”